Queste riflessioni di Dharma sulla passività e l’energia vogliono rispondere ad una domanda che viene frequentemente posta, ovvero se accettare le cose, nell’ottica di “va bene così”, generi però passività.
Uno degli stati mentali considerati estremamente importanti nella pratica spirituale insegnata dal Buddha è quello dell’equanimità, upekkha, poter affrontare tutti gli eventi della vita trattandoli allo stesso modo. Questa capacità è basata sulla conoscenza intrinseca dell’impermanenza, riconoscere che tutti i fenomeni sono destinati a svanire. Sono come nuvole che passano nel cielo, coprendo il sole e poi, inevitabilmente, lasciandolo risplendere ancora. L’equanimità permette di abbracciare tutto allo stesso modo, le esperienze piacevoli e quelle spiacevoli, i momenti belli della vita e quelli difficili. Si presenta quando si abbandonano gli attaccamenti e le avversioni e, al tempo stesso, nutre le condizioni per arrivare a questo abbandono.
E’ una qualità facilmente riconoscibile in coloro che hanno raggiunto delle realizzazioni spirituali importanti ed oltre che essere il quarto dei Brahmavihara, le Dimore Divine, è il settimo dei sette fattori di illuminazione, i bojjhaṅga.
Il suo nemico lontano è l’eccitazione, lasciarsi trascinare da tutte le situazioni. Ma quello più difficile da padroneggiare è il suo nemico vicino, che è l’indifferenza, basata sulla noncuranza non cosciente. E’ una forma di rifiuto, per cui se da un lato vogliamo lasciarci trascinare delle sensazioni, dalle emozioni e dai pensieri, riconoscendo che c’è qualcosa che questa abitudine non ci porta benefici, evitiamo di osservare in profondità e ci costruiamo uno schermo, un’armatura di indifferenza. Ma questa naturalmente non è nient’altro che una falsa equanimità.
Descrive questa differenza in modo estremamente efficace il grande monaco Ajahn Chah, quando gli chiesero se conoscesse il Sutra di Hui Neng, il grandissimo maestro Chan:
La saggezza di Hui Neng è molto penetrante. È un insegnamento molto profondo, per i principianti non è facile da capire. Però, se pratichi pazientemente con la nostra disciplina, se pratichi il non attaccamento, alla fine capirai.
Ajahn Chah, “Insegnamenti”, disponibile gratuitamente sul sito del monastero Santacittarama
Una volta un mio discepolo stava in una capanna con il tetto impagliato. Durante quella Stagione delle Piogge* spesso pioveva e, un giorno, un forte vento fece volar via metà del tetto. Non si preoccupò di aggiustarlo, semplicemente lasciò che piovesse dentro la capanna. Dopo molti giorni gli chiesi della sua capanna. Disse che stava praticando il non attaccamento. Questo è non attaccamento privo di saggezza. È più o meno come l’equanimità di un bufalo d’acqua.
Se vivi un’esistenza semplice e buona, se sei paziente e altruista, capirai la saggezza di Hui Neng.
L’equanimità è quindi il bilanciamento tra il lasciar andare e l’agire, tra l’eccesso di energia e la passività.
Per capire a che punto siamo, dobbiamo sviluppare la qualità di sati-sampajañña, che significa “consapevolezza e chiara comprensione” o “chiara consapevolezza”. Sviluppando la consapevolezza, riusciamo ad entrare realmente in contatto con le cose e le persone, e su questa base possiamo intraprendere azioni basate sul Dharma.
In effetti tra i due estremi di reagire in modo automatico, non consapevole e quello di non agire, c’è la terza via di agire sulla base della compassione, del bene per gli altri e per noi.
Il Buddha ha distinto il reale lasciare andare da quello basato sull’ignoranza, enunciando questi versi del Dhammapada
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Dhammapada, traduzione di Francesco Sferra, da “La Rivelazione del Buddha”, a cura di Raniero Gnoli
Si potrebbe vivere cento anni
con indolenza, con scarsa energia,
meglio sarebbe un solo giorno vissuto
da persona energica, risoluta.
Il termine Pāli usato per definire la persona pigra è kusīto. Questo indica non soltanto la pigrizia, ma anche lasciar dimorare la mente in pensieri non salutari.
Quali siano questi pensieri ci viene spiegato direttamente dal Beato nel Sacitta sutta:
E come un monaco è capace di leggere la sua mente ? Immaginate un giovane – o un uomo – di bell’aspetto, che esamina la sua faccia in uno specchio brillante e pulito o in una ciotola di acqua chiara – se vedesse qualche macchia, cercherebbe di rimuoverla. Se non vedesse nessuna macchia, ne sarebbe lieto: ‘Come sono fortunato! Come sono pulito! ‘ Allo stesso modo, un monaco compie la stessa cosa riguardo alle qualità salutari:
AN 10.51: Sacitta Sutta – La propria mente
‘Di solito sono bramoso?
Ho pensieri di cattiva volontà?
Ho superato l’accidia e la sonnolenza?
Sono andato oltre l’incertezza?
Sono adirato?
Ho pensieri impuri o puri?
Il mio corpo è svegliato?
Sono pigro?
“Se, con tale auto-esame, un bhikkhu sa: Sono spesso dato al desiderio, dato alla cattiva volontà, sopraffatto da torpore e sonnolenza, inquieto, afflitto dal dubbio, arrabbiato, contaminato nella mente, agitato nel corpo, pigro, e non centrato,’ egli dovrebbe mettere avanti il desiderio straordinario, sforzo, zelo, entusiasmo, infaticabilità, ritenzione mentale e chiara comprensione per abbandonare quelle stesse cattive qualità malsane. Proprio come uno i cui vestiti o la testa aveva preso fuoco avrebbe messo avanti straordinario desiderio, sforzo, zelo, entusiasmo, infaticabilità, consapevolezza, e chiara comprensione per spegnere il fuoco sui suoi vestiti o sulla testa, così che bhikkhu dovrebbe mettere avanti il desiderio straordinario, sforzo, zelo, entusiasmo, infaticabilità, consapevolezza, e chiara comprensione di abbandonare quelle stesse cattive qualità malsane.
Kusīta è un termine affine a hīnaviriya, la riduzione dell’energia, l’essere senza zelo e dedizione. E infatti il bilanciamento deve proprio essere offerto dal terzo fattore di risveglio, viriya, l’energia, la dedizione. Arriveremo così allo stato di akusīta, di allerta, di consapevolezza, di attenzione.
L’energia ci permette infatti di vivere nel retto sforzo, che nel Nobile Ottuplice Sentiero è definita come quella qualità per cui (1) si abbandonano gli stati mentali non salutari, (2) si opera per creare le condizioni che questi stati non salutari non si presentino, (3) si mantengono gli stati mentali salutari già sorti e (4) si opera per farli sorgere se ancora non ci sono.
Come si vede, è un lavoro estremamente attivo!
MN 141: Saccavibhanga Sutta – Determinazione della verità
Come si vede, è un lavoro estremamente attivo! Il Buddha ne parla nel MN 141: Saccavibhanga Sutta – Determinazione della verità, dove indica che il praticante “desta e sforza la volontà, s’arma d’energia, prepara l’animo alla lotta per non far sorgere, non sorte, malefiche cose; per abbattere, già sorte, malefiche cose; per far sorgere, non sorte, benefiche cose; per far restare, moltiplicare, sviluppare, completare, già sorte, benefiche cose.“.
Si potrà così raggiungere lo stato di upekkha, di equanimità, e quello di appossukkatā, la calma rilassata, l’inazione di quando non c’è ragione di agire – e solo in quella condizione, non sempre!
Hui Neng sulla passività e l’energia
Nella storia di Hui Neng, divento patriarca rispondendo a questa poesia del capo dei monaci:
«Il vero albero del Bodhi è il corpo,
Shénxiù
la mente è il suo specchio lucente.
Lascialo sempre perfettamente chiaro,
che non vi sia un solo granello di polvere.»
Vigilando sulla nostra mente, possiamo arrivare a toccare quello che diceva Hui Neng nella sua famosa poesia:
«Non vi fu mai l’albero del Bodhi,
Hui Neng
e neppure il suo specchio lucente.
tutto è fin dall’inizio immacolato,
dove cadrà la polvere?»
Referenze
Riflessioni di Dharma sulla passività e l’energia registrate nel gruppo di meditazione di Terrapura il 14 maggio 2021.
Nella stessa sessione abbiamo pratico questa meditazione sulla luce delle cellule del corpo: