Questa è la quinta puntata dell’introduzione al Buddhismo: sofferenza e felicità, il percorso nel Sentiero del Dharma.
Precedenti puntate:
- Descrizione della serie
- Vita del Buddha
- Insegnamenti fondamentali
- Il Buddhismo, cosa si intende per esso, come si è diffuso in diverse tradizioni.
Sofferenza e felicità
La Prima Nobile Verità ci fa prendere atto dell’esistenza di dukkha, dell’insoddisfazione, lo stress, la sofferenza. Per quanto questa verità sia senz’altro Nobile, ciò non di meno essa non è una verità assoluta, in quanto nella Terza Nobile Verità si proclama la cessazione della sofferenza, il nirodha. Il risultato ultimo di questa cessazione è il nibbana, in italiano entrato in uso nella sua versione sanscrita, nirvana, su cui il Buddha non ha mai voluto dare dettagli.
Nel suo primo insegnamento, il Dhammacakkappavattana Sutta, “la messa in moto della ruota del Dharma, il Buddha elenca otto distinte tipologie di sofferenza:
- La nascita è sofferenza perché inevitabilmente conduce alle altre forme di sofferenza.
- La vecchiaia è sofferenza, per il degrado fisico che l’accompagna.
- La malattia è sofferenza, per il mal funzionamento del corpo e il dolore che ne scaturisce.
- La morte è sofferenza, per la perdita della vita.
- L’unione con ciò che odiamo è sofferenza, poiché è l’opposto di quel che vogliamo.
- La separazione da ciò che amiamo è sofferenza, poiché non abbiamo più ciò che vogliamo.
- Il non ottenere ciò che desideriamo è sofferenza, poiché non otteniamo ciò che vogliamo.
- I cinque aggregati dell’attaccamento sono sofferenza, poiché si uniscono e disperdono senza stabilità.

La sofferenza è assoluta o relativa?
Si è talvolta intesa la Prima Nobile Verità dandogli valore assoluto, per cui spesso si sente dire che nel Buddhismo tutto è sofferenza, identificandola con tre diverse tipologie:
- Dukkha-dukkhatā, la sofferenza fisica causata dal dolore, dalla vecchiaia, dalla morte, dalle condizioni ambientali spiacevoli, dal trovarsi uniti a ciò che non si ama.
- Sankhāra-dukkhatā, la sofferenza prodotta dalle formazioni, i fenomeni condizionati, i sankhāra, i quali, essendo naturalmente soggetti a terminare separando gli aggregati che li compongono, sono descritti come sofferenza. E’ la natura intrinsecamente insoddisfacente del samsāra, l’agire sulla base dei condizionamenti che ci porta a vivere una vita non soddisfacente e frustrante.
- Vipariṇāma-dukkhatā, la sofferenza data dal cambiamento, dal non sapere accettare l’invecchiamento, dallo scoprire che ciò che prima andava bene ora non ci piace più. Rientra in questa categoria anche l’essere separati da ciò che si ama e il non ottenere quel che si desidera.
Poiché i dolori sono parte dell’esistenza umana, tutto ciò che osserviamo è un aggregato, un sankhāra, e tutto è destinato a mutare, anicca, sembrerebbe proprio essere che al mondo non vi sia altro che sofferenza.
Nel Dukkhatāsutta si ha l’enumerazione di queste tre forme di sofferenza, per poi continuare però con una frase che chiaramente indica come queste non siano assolute:
«Il nobile ottuplice sentiero deve essere sviluppato per la conoscenza diretta di questi tre tipi di sofferenza, per la loro piena comprensione, per la loro totale distruzione, per il loro abbandono.» SN 45.165, trad. Bhikkhu Bodhi
La sofferenza e le tre radici non salutari
Poiché questa comprensione, l’illuminazione, si può raggiungere durante la vita, è evidente come non sia vero che tutto è sofferenza, ma piuttosto che percepiamo il mondo come sofferenza a causa dei tre veleni, gli stati mentali non salutari, akusala-mūla, di illusione e ignoranza, attaccamento e avversione, in lingua Pāli rispettivamente chiamati moha (o avijjā), lobha (o taṇhā) e dosa. Superati questi, avendo compreso le ragioni della sofferenza, la si potrà abbandonare e non ci sarà più dukkha.
E’ nell’Akusalamūlasutta che il Beato descrive questi veleni, queste radici non salutari. Fortunatamente il Buddha indica anche i mezzi per contrastarli con tre radici salutari, tre corrispondenti fattori mentali che ne sono l’opposto e ne costituiscono la cura. L’opposto dell’illusione, è amoha o pañña, cioè la non confusione, data dalla saggezza. L’opposto dell’attaccamento e della cupidigia è alobha, la non cupidigia, rappresentata dalla generosità del dāna mentre per contrastare l’avversione vi è adosa, la non avversione, rappresentata dalla gentilezza amorevole, mettā.
L’agire sulla base delle radici non salutari o salutari ha un effetto diretto non soltanto sull’intimo di una persona, ma anche sulle sue parole e sulle sue azioni. Così chi agisce privo di ignoranza, attaccamento, odio e avversione parlerà e agirà per il beneficio suo e di tutti gli esseri, creando azioni positive:
Una tale persona è chiamata colui che parla al momento giusto, parla di ciò che è reale, parla di ciò che è rilevante, parla in linea con il Dhamma, parla in linea con il Vinaya. Perché? Per non aver inflitto ingiustamente sofferenza a un’altra persona picchiando o imprigionando o confiscando o dando la colpa o calunniando, [con il pensiero] ‘Ho potere. Voglio il potere.’ Quando gli viene detto ciò che non è reale, fa uno sforzo fervido per liberarsene [per comprendere], “Questo non è reale. Questo è infondato.’ Ecco perché una tale persona è chiamata colui che parla al momento giusto, parla di ciò che è reale, parla di ciò che è rilevante, parla in linea con il Dhamma, parla in linea con il Vinaya. AN 3.69: Akusalamūla Sutta – Radici
La felicità
Per quando non c’è dukkha, il Beato ha usato un altro termine, sukha, che è la felicità, la beatitudine, il benessere, il piacere slegati dai desideri sensuali:
«Quei mendicanti che sono illuminati, le cui contaminazioni sono state distrutte, che hanno vissuto la vita santa, hanno fatto ciò che doveva essere fatto, hanno previsto il peso, hanno raggiunto il loro proprio obiettivo, hanno distrutto completamente le catene dell’esistenza, completamente liberati dalla conoscenza finale: per loro la concentrazione mediante la consapevolezza del respiro (anapanasati), una volta sviluppata e coltivata, conduce ad una dimora piacevole (sukha) in questa stessa vita e ad una consapevolezza e chiara comprensione (satisampajaññāya).» SN 54.11, Icchānaṅgala, trad. Bhikkhu Bodhi
Sukha è giustapposto a dukkha, con i due prefissi, su- e du-, rispettivamente ad indicare bene e male, prefissi usati per distinguere un buon asse per il carro da uno cattivo.
Il Buddha indica nell’Ānaṇyasutta che anche per i capofamiglia, i laici, è possibile provare felicità ancora prima dell’illuminazione, compiendo azioni molto pratiche:
- la felicità di guadagnare ricchezza (atthi–sukha) con i giusti mezzi
- la felicità di usare (bhoga–sukha) generosamente la ricchezza per la famiglia, gli amici, e per azioni meritevoli;
- la felicità dell’essere senza debiti (anaṇa–sukha);
- la felicità di essere irreprensibili (anavajja–sukha), vivere una vita pura impeccabile e pura controllando pensieri, parole e azioni.
Come riportato nel sutta, “quando il laico riflette su questo, è pieno di piacere e felicità” e ancora:
Conoscendo la felicità di essere senza debiti, / e la felicità dell’avere, / godendo della felicità derivante dalla ricchezza, il comune mortale/ vede con conoscenza.
Con retta visione – il saggio – / conosce ogni felicità: / e sa che la felicità di essere puri è la più elevata, AN 4.62
La felicità delle Quattro Dimore Divine
Da ultimo, non possiamo non ricordare che la pratica delle Quattro Dimore Divine, i Brahmavihārā, ovvero la gentilezza amorevole, la compassione, la gioia compartecipe e l’equanimità sono alla base di una vita serena e felice. La prima di queste dimore, mettā, viene definita proprio come il desiderio di apportare benessere e felicità agli altri e a sé stessi, con l’augurio così splendido del Karaniya Mettā Sutta: che tutti gli esseri possano vivere felici! Sabbe sattā bhavantu sukhitattā!
Referenze
- Dukkhatāsutta, Forme della sofferenza, SN 45.165
- Icchānaṅgalasutta, Icchānaṅgala, SN 54.11, trad. Bhikkhu Sugato
- Ānaṇyasutta, Senza debiti, AN 4.62, trad. di Bhikkhu Bodhi
- Dhammacakkappavattana Sutta, La Ruota della Legge, SN 56.11
- Akusalamūla Sutta, Radici, AN 3.69
- Wikipedia, pagina inglese su sukha
Foto di copertina: Wang Junyi on Unsplash
Foto: Buddha seduto, dal 1º alla metà del II secolo, Pakistan (antica regione di Gandhara), The Metropolitan Museum of Art. Questo piccolo Buddha di bronzo è probabilmente una delle prime rappresentazioni iconiche di Shakyamuni di Gandhara. Si siede in una postura yogica tenendo la mano destra in Abhaya Mudra (un gesto di accessibilità); il suo alone insolito ha dentellature che indicano luce irradiante. La sua acconciatura, la forma delle sue vesti e il trattamento della figura riflettono i contatti stilistici con le tradizioni classiche dell’Occidente. Questo Buddha mostra affinità più strette con la scultura romana di qualsiasi altro bronzo gandharano sopravvissuto.
Musiche di Damiano Baldoni